La presenza delle prime comunità umane nell’area di Venosa risale al Paleolitico inferiore, testimoniata dal ritrovamento di numerosi strumenti di pietra dalla tipologia già molto progredita (amigdale), tipiche di quel periodo. Al Neolitico si deve l’installazione di un primo embrione di organizzazione antropica dello spazio. Successivamente, intorno al VII secolo a. C., con gli Appuli si ebbe il primo insediamento sul promontorio venosino di dimore stabili. Nel IV secolo a. C., i Sanniti, si impossessarono della città. Benché relativamente breve (400 – 290 a.C.), il dominio sannita rappresentò per la città un periodo di potenza e di prosperità.
L’inizio dell’espansionismo romano verso il Sud della penisola si ebbe a partire dal nel 291 a.C. Protagonista della conquista fu L. Postumio Megello ben presto estromesso e sostituito dalla potente famiglia dei Fabii. Furono proprio i Fabii, infatti che si occuparono delle cerimonie di fondazione della città, e che decisero di confermare il nome di Venusia alla nuova colonia. Inquadrata tra le colonie di diritto latino, Venosa godette di una larga autonomia, vincolata al solo patto di alleanza con Roma. La colonia ebbe un ruolo attivo durante la seconda Guerra Punica (218 – 201 a.C.), che vide Roma impegnata contro gli eserciti di Annibale, fornendo cospicui aiuti durante le varie fasi del conflitto. Proprio in occasione della famosa battaglia di Canne, Venosa accolse le guarnigioni scampate al massacro e fornì loro i supporti necessari per sferrare il contrattacco. In tale periodo, la città dovette essere senza dubbio logorata e gravemente decurtata nel numero degli abitanti se nel 200 a.C. vi fu inviato un rinforzo di coloni, per la scelta dei quali furono nominati dei triumviri. A partire dal 190 a.C., con il definitivo prolungamento della via Appia (la più antica delle strade consolari romane), la città divenne un importante centro commerciale e quindi amministrativo acquisendo una posizione di privilegio all’interno della regione.
Dopo la riconquista romana, per effetto della lex julia de civitate, ebbe un avanzamento di grado nel sistema gerarchico delle città romane, divenendo municipium civium romanorum, e inserita nella tribus Horatia, la vecchia tribù in cui erano inquadrati i ceti di governo. Nel 43 a.C. Venusia perse lo status di municipio romano e ritornò ad essere un colonia militare. Il ritorno al vecchio status non va però considerato come un semplice declassamento, al contrario, l’afflusso di nuova popolazione scelta tra i veterani di guerra più valorosi, favorì l’inizio di un nuovo periodo di floridezza e di sviluppo economico. Il tempo di Augusto imperatore coincise con il periodo di massima espansione economica della Venusia romana, periodo nel quale la città conobbe, tra l’altro, un notevole incremento di costruzioni e di edifici pubblici (terme, anfiteatro, ecc.). Nel 114 d.C., con la decisione dell’Imperatore Traiano di deviare il tracciato originale della via Appia, facendo costruire una variante verso la costa adriatica, Venosa restò tagliata fuori dalle grandi vie di comunicazione e incominciò a perdere il ruolo di importante centro militare.
In età tardo antica a Venosa, oramai ridimensionata nel suo ruolo originale, incominciò a diffondersi il messaggio cristiano, soprattutto però nelle aree extraurbane (di qui la presenza di alcuni piccoli edifici religiosi fuori le mura). Nel 238, Filippo, nominato vescovo di Venosa, a capo di una numerosa comunità cristiana, diede inizio al lento processo di sostituzione del potere religioso a quello civile nell’amministrazione della città. L’affermarsi quindi del potere vescovile come espressione della nuova classe dirigente locale portò lo stesso vescovo ad assumere via via anche poteri e prerogative proprie dell’amministrazione civile.
È interessante però notare in epoca tarda antica, dal IV secolo d.C. la presenza di un’importante comunità ebraica a Venosa, testimoniata dal ritrovamento di epigrafi e soprattutto dalle catacombe nei pressi della collina della Maddalena, complesso ipogeo a uso sepolcrale, estremamente interessante, ricco di iscrizioni in caratteri greci, latini ed ebraici che testimoniano la storia di questa comunità e dell’integrazione nel sistema sociale e amministrativo romano, oltre che alle particolarità delle usanze funebri.
Venosa in età alto medievale vide arretrare sensibilmente i suoi confini nord-orientali e quindi ridursi il suo perimetro urbano. Accanto a tale fenomeno, si ebbe anche una forte contrazione demografica e un costante abbandono delle campagne ormai divenute meno sicure. La città, al pari di molti altri centri si ridimensionò e trasformò secondo l’urbanistica medievale.
Venosa è ricca di testimonianze della sua antichissima storia, oltre all’importante sito preistorico di Notarchirico, si trova un’importante area archeologica romana nella località di S. Rocco. Gli elementi più interessanti del parco archeologico sono senza dubbio le terme e l’anfiteatro. Sono presenti, inoltre, molte testimonianze di domus private. Il complesso termale si compone di diversi ambienti, in particolare si osservano che nel tepidarium sono rimasti piccoli pilastri in mattone, e il frigidarium ha dei pavimenti a mosaico con soggetti geometrici di animali marini. L’anfiteatro di età Giulio Claudia poteva accogliere circa 10.000 spettatori ed era di forma ellittica, se ne conserva parte del perimetro e delle parti muratura negli stili opus mixtus e opus reticulatus. A Venosa è possibile vedere il passaggio sfumato dall’antica Roma al medioevo, che prende forma concreta nell’abbazia della Santissima Trinità, con la sua stratificazione conserva integrati elementi di epoche successive.
Dall’esterno si nota una doppia struttura che comprende due chiese che risalgono all’epoca normanna. La prima, detta la chiesa antica, è in stile romanico, a pianta basilicale a tre navate, e conserva al suo interno traccia del pavimento della precedente basilica paleocristiana del VI secolo d.C., a sua volta edificata su un tempio pagano del dio Imeneo. Inoltre a un piano inferiore sono state ritrovate dei pavimenti a mosaico di una domus privata di età imperiale. Adiacente a questa chiesa vi è poi un’altra costruzione molto suggestiva, nota come la chiesa incompiuta. La sua costruzione fu iniziata nel XIII secolo, ma fu sospesa per carenza di fondi. Oggi rimane esattamente come è stata lasciata all’epoca. Il perimetro a croce latina absidata è completo dei muri innalzati e ben conservati, all’interno due arcate complete, cinque colonne corinzie e un pilastro portante, parte della facciata e del battistero sono gli elementi che riuscirono a costruire prima di abbandonare l’opera
L'abbazia della SS. Trinità, situata all’estremo limite della città, sorge là dove un tempo era il centro politico economico della città. Essa si compone di tre parti: la chiesa antica, fiancheggiata a destra da un corpo di fabbrica avanzato che costituiva un tempo il luogo riservato ad accogliere i pellegrini (foresteria, a piano terra, monastero al piano superiore); la chiesa incompiuta, i cui muri perimetrali si sviluppano dietro la Chiesa antica e in prosecuzione sul medesimo asse; e il Battistero, probabilmente una chiesa paleocristiana con due vasche battesimali, da questa separato da breve spazio. I primi interventi di costruzione della chiesa antica, effettuati su un edificio paleocristiano risalente al V – VI secolo, a sua volta edificato sulle rovine di un tempio pagano dedicato al dio Imene, debbono farsi risalire tra la fine del 900 e gli inizi dell’anno 1000. L’impianto della chiesa è quello tipico paleocristiano: ampia navata centrale di metri 10,15 di larghezza, navate laterali rispettivamente larghe metri cinque, e abside sul fondo e cripta del tipo a “corridoio”. I muri e i pilastri appaiono decorati da affreschi databili tra il XIV e il XVII secolo (Madonna con Bambino, Santa Caterina di Alessandria, Niccolò II, Angelo Benedicente, Deposizione). All’interno, accanto agli affreschi citati, si segnalano la tomba marmorea di Aberada, moglie di Roberto il Guiscardo e madre di Boemondo eroe della prima crociata e, di fronte, la tomba degli Altavilla, testimonianza della loro devozione e del loro particolare attaccamento all’edificio religioso.
Il tempio incompiuto, il cui ingresso è sormontato da un arco semicircolare impreziosito dal simbolo dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, si presenta di dimensioni grandiose (copre una superficie di 2073 metri quadrati). L’impianto è a croce latina con transetto molto sporgente nei cui bracci sono ricavate due absidiole orientate. L’interno è caratterizzato dalla presenza di molti conci di pietra provenienti dal vicino anfiteatro romano (epigrafe latina che ricorda la scuola gladiatoria venosina di Silvio Capitone, un bassorilievo raffigurante una testa di Medusa, ecc.). La crisi in cui precipitò il monastero benedettino subito dopo l’inizio dei lavori di ampliamento, fu certamente la causa della interruzione degli stessi che non vennero mai portati a termine. Di fronte all’ingresso si notano i resti di un ampio muro curvilineo; è quanto oggi rimane del Battistero o più probabilmente di un edificio basilicale con due vasche battesimali.
Nei pressi della collina della Maddalena, a poco più di un chilometro di distanza si trovano le Catacombe ebraiche. Occupano la zona di detta collina e si articolano in vari nuclei di notevole interesse storico e archeologico. Una fila di grotte scavate nel tufo e in parte franate, preannuncia la presenza delle Catacombe Ebraiche e Paleocristiane. All’interno si trovano loculi parietali e nel suolo. Le nicchie (arcosolii) contengono due o tre tombe oltre a loculi laterali per bambini. Esse furono scoperte nel 1853 (la documentazione completa relativa alla scoperta è conservata nell’archivio storico) e presentavano segni indelebili di saccheggio e di devastazione. In fondo alla galleria principale svoltando a sinistra si segnalano numerose epigrafi (43 del III e del IV secolo) in lettere dipinte di rosso o graffite. Di queste, 15 sono in lingua greca, 11 in lingua greca con parole ebraiche, 7 in lingua latina, 6 in lingua latina con parole ebraiche, 4 in lingua ebraica, e altre 4 sono in frammenti.
La comunità ebraica, il cui nucleo originale era verosimilmente ellenistico, come si rileva dalle epigrafi, era per lo più costituita da commercianti e da proprietari terrieri. Non pochi suoi esponenti assunsero importanti cariche nel governo cittadino. Anche a Venosa gli ebrei concentravano nelle loro mani il potere economico, detenendo il monopolio del commercio del grano, dei tessuti e della lana. Nel 1972 un altro sepolcreto fu scoperto nella collina della Maddalena, la Catacomba Cristiana del IV secolo, il cui ingresso originario era posto a circa 22 metri dal piano del sentiero che porta alla Catacomba Ebraica. Nel corridoio di accesso in quell’occasione furono rinvenuti 20 arcosoli, 10 per parete, oltre a parti di lucerne ed una intera di argilla rossa del tipo cosiddetto a perline risalente al IV – II secolo a. C. Fu ritrovata, inoltre, una lucerna di argilla chiara, caduta da una nicchietta, di tipo mediterraneo ed una lastra sepolcrale attribuita all’anno 503.
Nel punto dove è posto il maniero, vi era in precedenza l’antica Cattedrale dedicata a S. Felice, il Santo che, secondo la tradizione, subì il martirio a Venosa all’epoca dell’Imperatore Diocleziano. L’antica Cattedrale fu abbattuta per far posto alla fortificazione quando, nel 1443, Venosa venne portata in dote da Maria Donata Orsini, figlia di Gabriele Orsini principe di Taranto, a Pirro del Balzo, figlio di Francesco duca di Andria. I lavori di costruzione del Castello, incominciati nella seconda metà del XV secolo, proseguirono per alcuni decenni. L’aspetto originario era ben lontano da quello odierno: si presentava, infatti, come una fortificazione a pianta quadrata, difesa da una cinta muraria dello spessore di 3 metri, con torri cilindriche angolari, privo degli stessi bastioni che furono completati nella metà del secolo successivo. Nato come postazione difensiva, successivamente, con i Gesualdo divenne dimora del feudatario.
Passato ai Ludovisi come bene del feudo, esso venne completamente abbandonato, e la violenza delle scosse sismiche che ripetutamente si abbatterono nel corso di tutto il Seicento ne minarono la struttura e la funzionalità. Alla ricostruzione dell’antico maniero, con l’aggiunta di parti più adatte ai tempi, come l’elegante loggiato al piano nobile, provvidero i Caracciolo (successori nel feudo ai Ludovisi) nell’intento di riaffermare il potere signorile sulla città sempre più lontana dai fasti del glorioso passato.
L’ingresso originario non era quello attuale, esso si apriva sul lato nord - est, ed era munito di ponte levatoio. Attualmente, all’inizio del ponte di accesso, vi sono due teste di leone provenienti dalle rovine romane: elemento ornamentale tipico e ricorrente in una città che nel passato ha fatto largo uso di materiale di spoglio. All’interno del Castello, nel cortile si affaccia il loggiato a pilastri ottagonali del secolo XVI.
Sito risalente al I secolo d. C. meglio nota come Casa di Quinto Orazio Flacco. Una struttura costituita da ambienti termali di una casa patrizia, composti da una sala rotonda che costituiva il calidario e di un attiguo vano rettangolare. La facciata mostra visibili tratti di strutture romane rivestiti di mattoni a legatura reticolata.
Inaugurato nel novembre del 1991. Al suo interno, il percorso museale si snoda attraverso una serie di sezioni che illustrano le varie fasi di vita della città antica, a partire dal periodo precedente la romanizzazione, documentato da ceramica a figure rosse e da meteriali votivi (terrecotte, bronzi tra cui un cinturone) di IV – III sec. a.C. provenienti dall’area sacra di Fontana dei Monaci di Bastia (odierna Banzi) e da Forentum (Lavello). Dominano questa sezione il corredo funerario di un bambino, contenente la statuetta del toro Api, ed il famoso askos Catarinella con scena di corteo funebre (fine IV – III sec. a.C.). Nei camminamenti del castello si ripercorre la vita dell’antica Venusia dal momento della sua fondazione, con la ricostruzione dell’impianto urbano e i più importanti documenti della fase repubblicana (le terrecotte architettoniche, la produzione ceramica a vernice nera, gli ex – voto dalla stipe sotto l’anfiteatro, la ricca monetazione in bronzo). Molto significativa e consistente si presenta la raccolta epigrafica che permette di ripercorrere le tappe più importanti della storia del centro antico, come il riassetto della colonia nel I secolo a. C., ben rappresentate dal templum augurale bantino, ricostruito nel Museo, con cippi iscritti per trarre gli auspici, e da un frammento della famosa Tabula bantina, con testi legislativi su entrambi i lati, rinvenuto nei pressi di Oppido Lucano nel 1967. Le epigrafi, alcune delle quali ricordano magistrati impegnati nel rifacimento di strade o nella costruzione di infrastrutture come l’acquedotto, sono soprattutto di carattere funerario con un notevole numero di cippi iscritti, stele centinate, coperchi di arca (la c.d. “arca lucana”), monumenti funerari con busti e statue a grandezza naturale e ricchi fregi dorici, che dal I a. C. fino al IV secolo d. C. costituiscono una preziosa testimonianza della stratificazione sociale della città.
A circa nove chilometri dalla città moderna, in un’area collinare che si estende fino alle grotte artificiali di Loreto si trova il Sito Paleolitico di Notarchirico, costituito da un’area museale coperta allestita e affidata dall’Istituto Paleolitico Luigi Pigorini di Roma. Il rinvenimento e la scoperta delle prime testimonianze della presenza umana in epoca preistorica, si devono alla passione e alla capacità scientifica dell’avv. Pinto e del prof. Briscese che, nell’estate del 1929, effettuarono le prime ricognizioni sul territorio, portando alla luce i primi significativi reperti. Le successive campagne di scavo hanno consentito di ritrovare una serie di frammenti dell’uomo preistorico oltre a numerosi resti di animali ora estinti (elefante antico, bisonte, bue selvatico, rinoceronte, cervidi, ecc.).
Fra gli strumenti rinvenuti si ricordano i bifacciali. Un cranio di Elephas anticuus è stato ritrovato durante gli scavi del 1988. Le ricerche proseguono da parte della Soprintendenza Speciale in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica della Basilicata, con l’Università di Napoli “Federico II” e con il Comune di Venosa. Nel settembre del 1985 è stato ritrovato un femore umano frammentario fortemente fossilizzato attribuito ad un individuo femminile di età adulta. Il femore appartenuto probabilmente ad un Homo erectus, è il più antico resto umano ritrovato nell’Italia Meridionale e presenta alcuni aspetti patologici, studiati dal prof. Fornaciari, consistenti in una neoformazione ossea, forse il risultato di una osteoperiostite conseguente ad una ferita profonda alla coscia subita dall’individuo in vita. Il femore è stato dato in studio ai laboratori dell’Istituto di Paleontologia Umana di Parigi e la sua datazione, attribuita usando il metodo del disequilibrio della serie dell’uranio, risale a circa 300.000 anni fa.
Nacque l’8 dicembre del 65 a.C. Figlio di uno schiavo liberato (liberto), non ebbe nella fanciullezza il conforto materno, infatti crebbe solo col padre, che sempre ne ebbe cura amorevolmente. A Venosa il fanciullo ebbe come maestro principalmente il padre per il quale serbò immensa gratitudine. Con tenacia popolana il liberto dovette lavorare molto per consentire al figlio di stabilirsi a Roma, forse presago del suo destino. A Roma frequentò le migliori scuole di grammatica e retorica (fu allievo, tra gli altri, del grammatico beneventano Orbilio). A 18 anni il poeta è ad Atene, dove si appropria della cultura più fine del tempo, allievo di celebri accademici, peripatetici, epicurei. Lì aderì all’ideologia repubblicana dei giovani patrizi romani e in tale periodo fu coinvolto nella storica battaglia di Filippi (42 a. C.). Salvatosi miracolosamente, fece ritorno a Roma (41 a. C.), approfittando del condono politico di Ottaviano che però non risparmiò i suoi beni rustici nella natia Venosa, successivamente confiscati. Privo di mezzi, dovette adattarsi a fare lo scrivano nell’ufficio del questore.
Nel frattempo, le sue composizioni incominciarono a trovare ammiratori a Roma e non tardarono ad essere apprezzate anche da Virgilio e da Vario che gli divennero amici per la vita; lo presentarono a Mecenate al quale era già arrivata notizia del poeta venosino. Con l’amicizia di Mecenate entrò a far parte di una ristretta élite di intellettuali vicini all’imperatore Augusto. Quest’ultimo lo designò suo segretario, ma Orazio declinò l’invito, pur condividendone l’azione sia sul piano politico che su quello letterario. Nel 17 a. C. fu incaricato di scrivere il Carmen seculare, in onore di Apollo e Diana, da cantare durante i ludi saeculares. Nel 20 a. C. iniziò a “pubblicare” le Epistole, il secondo libro delle quali comprende tre lunghi componimenti di argomento estetico fra cui l’ars poetica. Nell’ultimo anno di vita scrisse i quattro libri delle Odi, fra le quali si distinguono le cosiddette Odi Romane. Morì il 27 novembre dell’8 a.C. dopo breve tempo del suo grande amico e protettore, lasciando i suoi beni ad Augusto che lo fece seppellire sull’Esquilino accanto alla tomba di Mecenate.