di Andrea Semplici
I buoi, nelle prime ore del mattino del sabato di Pentecoste, cominceranno a trainare, fuori dal bosco di Montepiano, foresta di Accettura, Dolomiti della Lucania, l’albero-sposo, il Grande Cerro, il Maggio. Un colpo di petardo sarà il segnale che la Festa comincia….
Sono sopravvissuto al Maggio di Accettura. Felicemente sopravvissuto. Sono stati quattro giorni di gioia assoluta, baccanale euforico, sorpresa totale. Giorni eccitati, sopra le righe. Rileggo, con stupore, quanto dissi a un giornale lucano: ‘Nei miei viaggi non mi è mai successo di vivere una storia così emozionante e irraccontabile come il Maggio del vostro paese’. Sarò stato intontito dal vino e dalle zeppole, le frittelle offerte a interi cesti dalle donne, ma credo di aver detto la verità. Ricordo benissimo quando parlai con Angelo Labbate, giornalista e antropologo accetturese: era la notte dell’ultimo giorno, la festa non voleva finire, eravamo stremati e sopra di noi, ben piantato nella buca scavata nella piazza-anfiteatro di san Vito, svettava solitario quell’albero altissimo, quaranta metri da vertigini, un cerro e un agrifoglio sposati assieme, matrimonio entusiasmante di un rito arboreo. L’albero nudo, con una cima irraggiungibile di fronde, superava in altezza il campanile della chiesa. E, illuminato dalle luci colorate delle bancarelle, sembrava godersi ancora la festa, la sagra, la musica, le danze, il cibo, il vino. La bassa musica, tamburelli, trombe, fisarmoniche e zampogne, suonava ancora, sommessamente, per corteggiare la notte: era come una ninna dolcissima per gli spiriti della Natura delle foreste di Gallipoli-Cognato e delle cerrete di Montepiano. Si stavano finalmente addormentando dopo i giorni senza fine della Cuccagna.
Scusate, il Maggio di Accettura è per me un momento di felicità perfetta. La primavera lucana è una resurrezione. Gli inverni, qui, sono duri e lunghi. Accettura è a ottocento metri di altitudine, paese-sparviero (questo, forse, vuol dire il suo nome in un dimenticato latino), paese di montagna ai confini delle Dolomiti lucane. Poco più di duemila abitanti. E altrettanti emigrati nel dopoguerra: soprattutto a Nottingham, in Inghilterra, dove vivono almeno mille accetturesi. Quasi tutti tornano per la Pentecoste, giorni della festa del Maggio. Fine dei mesi del freddo, evento propiziatorio di fertilità e fecondità, ritualità cristiana e pagana allo stesso tempo. Grandi fotografi, documentaristi (Dondero, Koudelka, Quilici), antropologi (De Martino, Bronzini, Annabella Rossi) sono rimasti a bocca aperta di fronte al Maggio di Accettura. L’Unesco ha inserito questo rito fra le più belle feste del Mediterraneo.
La gente di questa Lucania profonda ha sempre amato (e temuto) i boschi e le foreste. Per secoli, le ribellioni popolari contro i poteri feudali e nobiliari sono cominciate con l’occupazione dei boschi dei signori. Il bosco era lavoro, sopravvivenza, nascondiglio. La primavera cancella ogni paura, invita a tornare fra gli alberi. In questa terra, i riti arborei, forse eredi di culti longobardi, sono l’evento più importante dell’anno. Con complesse cerimonie e grande fatica, bisogna far gli alberi. Un agrifoglio e un cerro ad Accettura (festa dedicata al patrono san Giuliano), faggi a Rotonda, tronchi d’abete a Viggianello. A Oliveto Lucano, meno di venti chilometri da Accettura, hanno il loro Maggio (dedicato a san Cipriano) e i boscaioli dei due paesi sorvegliano gli agrifogli prescelti per il matrimonio per evitare sgarbi e furti. A Castelsaraceno il rito dello sposalizio (in onore di sant’Antonio) è infinito e, fra taglio dei due alberi, trasporto e innalzamento, si va avanti per ben tre domeniche di giugno. A Terranova di Pollino l’albero-sposa è adornato con nastri colorati. A Castelmezzano si aspetta settembre per unire cerro e agrifoglio. A Pietrapertosa l’albero viene innalzato, a forza di braccia e corde, dalle finestre aeree del campanile di un’antica chiesa. Insomma, fra queste montagne e il selvatico massiccio del Pollino, ogni anno, fra la primavera e la fine dell’estate, si celebrano otto matrimoni arborei. E, poco oltre il confine regionale, versante calabrese del Pollino, anche gli uomini di Alessandria del Carretto trasportano a spalla cima e tronco di un abete colossale per ricongiungerli nella piazza del paese. Si può così passare i mesi delle belle stagioni in Lucania e godersi una festa nuziale infinita. Nemmeno le nozze dei reali di Inghilterra sono così grandiose e così perenni.
I quattro giorni di Accettura sono indimenticabili. Non si fermano nemmeno davanti alla pioggia. Bisogna essere forti, instancabili e avere il dono dell’ubiquità durante la festa. Bisognerebbe avere anche tempo, è cerimonia lenta il Maggio di questo paese. Dilatata nelle settimane. Otto giorni dopo Pasqua, si scelgono. Un agrifoglio della foresta di Gallipoli-Cognato sarà la ‘Cima’. Occhi esperti hanno scelto il più bello e il più frondoso. E per settimane gli uomini dei boschi hanno tenuto segreta la loro scelta. Nessuno dovrebbe sapere dove si trovi l’albero ‘eletto’. Nello stesso giorno, su un’altra montagna, a oriente di Accettura, nella foresta di Montepiano, il giorno dell’Ascensione, altri boscaioli hanno tagliato, con scuri e seghe speciali, un cerro ‘perfetto’. Possente come una colonna greca, dritto come un pilastro, alto quasi trenta metri. E’ lui il Maggio, lo sposo.
Ecco, arriva la Pentecoste. Cinque settimane dopo Pasqua. Il gran giorno del matrimonio arboreo. L’alba è passata da poco, ma gli accetturesi più giovani e più spavaldi hanno già raggiunto, con un corteo festoso, il bosco di Gallipoli. Sono stati condotti alla ‘Cima’. I boscaioli si sono contesi l’accetta per tagliare il grande agrifoglio come se fosse un sacrificio rituale. Poi decine e decine di ragazzi, eccitati, lo hanno sollevato, se lo sono sistemato sulle spalle e, a passo di carica, hanno ridisceso la montagna. Era come se si muovesse l’intera foresta. Una baraonda: i ragazzi incespicano, scartano di lato, si passano il tronco. Il vino scorre a garganella da botticelle miracolose. Le donne offrono cibo dai loro panieri. I bambini inciampano in ogni sasso. E’ una sorta di presepe tumultuoso. Ma c’è anche la pace di una messa ai lati della strada. C’è il tempo per un immenso pic-nic popolare in un prato: tovaglie sull’erba, salami, formaggi, baccalà, frittate. Urla di giubilo da ogni angolo del bosco. Questa sgangherata processione camminerà per un giorno intero. Scenderà e risalirà il vallone della Salandrella. Arriverà in paese nelle prime ore della notte. E lì la sposa-agrifoglio attenderà il suo promesso.
Nelle stesse ore in cui veniva tagliato l’agrifoglio, nella foresta di Montepiano, attorno al grande ‘Maggio’, il cerro abbattuto all’Ascensione, si sono radunati i massari, i contadini più anziani, i boscaioli più esperti e saggi. Sono i maggiaioli. Indossano panciotto e pantaloni di fustagno. Uomini maturi e forti che ora sembrano valutare la fatica che li aspetta. Da ogni radura spuntano fuori coppie di buoi dal manto bianchissimo e dalla mole immensa. Fra le corna hanno ciuffi di ginestra e immagini di san Giuliano. Le urla dei bovari li spingono verso il grande cerro. Che pesa almeno trentacinque quintali. E toccherà a queste pariglie di buoi trascinarlo fino al paese. Gli spiriti della vegetazione, se ci credete, sono nascosti sotto la corteccia dell’albero: sono loro, scrive l’antropologo materano Giovanni Battista Bronzini, a ‘far crescere il grano e moltiplicare il bestiame. Rendono feconde le donne, danno benessere alla comunità’. Sono i protagonisti invisibili della festa del Maggio
I buoi vengono aggiogati al tronco. Comincia il loro durissimo lavoro. Non vi sono più abituati. Nelle campagne di Accettura vengono allevati solo per questo giorno così speciale. Sbuffano, si impuntano, cedono all’improvviso, tirano con un sforzo immane, gli zoccoli scivolano nel muschio: alla fine il cerro si smuove, raggiunge una mulattiera, poi una strada sterrata. Uomini e ragazzi (anche ragazze. Con gommina nei capelli, scarpe Nike e pantaloni Dolce e Gabbana fasulli), in piedi sui tronchi, guidano la marcia dei buoi come se fossero sopra una biga indomabile. Si rincorrono grida di incitamento. Anche qui: vino a fiumi, musica che rulla per incoraggiare, ebbrezza. Il cammino fra Montepiano e la piazza di Accettura durerà l’intera giornata. Vi sarà il tempo per mangiare pecora e formaggi lungo la strada. I buoi devono tirare il fiato. Solo a sera, ben oltre il tramonto, anche questo corteo arriverà nella piazza del paese. E qui il Maggio conoscerà la Cima. I due alberi si incontrano prima delle nozze. E i ragazzi, i cimaioli ubriachi, abbracciano i vecchi bovari, gli anziani maggiaioli. Musica e danze fino a notte fonda.
Il lunedì, giorno dopo la Pentecoste, grandi lavori per il matrimonio. I due alberi dovranno essere uniti e innalzati. Con un gioco di incastri devono essere innestati l’uno con l’altro. Diventeranno un unico, altissimo tronco. Si costruiscono argani e paranchi. Non si possono usare né gru, né trattori per innalzare il Maggio. Si lavora di motosega e cunei di ferro. Il selciato di un angolo della piazza, al centro di una sorta di anfiteatro, viene smantellato. Si scava una grande trincea. Attorno ai manovali si intrecciano processioni: dalle campagne della Valdienna risalgono le immagini dei santi Giovanni e Paolo. Appare persino san Giulianicchio, rappresentazione giocosa del nipote del patrono. Al martedì saranno le donne a percorrere, danzando per devozione, le strade del paese portando sulla testa le cende, pesanti costruzioni di candele, nastri e fiori.
Il martedì dopo la Pentecoste è l’atto finale. Tensione nell’aria fin dal mattino. Funi robuste, forza di braccia, sforzo di decine di uomini, argani e paranchi che cigolano. L’albero, i due sposi uniti uno all’altro, viene innalzato. La musica rulla con frenesia. San Giuliano deve dare il suo ‘consenso’ all’ultimo strappo. Un’ultima, frenetica fatica. L’albero ora svetta sopra i tetti delle case. A quaranta metri di altezza, la sua Cima di fronde oscilla leggermente. Silenzio improvviso. Come un tirare il fiato. Ora è il momento dei funamboli, degli acrobati. I giovani più coraggiosi (Antonio, Rocco, Leonardo) si arrampicheranno sull’albero. Senza protezione. Con mani e gambe come uncini, saliranno lungo un legno liscio e verticale. Si spenzoleranno nel vuoto a testa in giù, ruoteranno attorno al tronco. Raggiungeranno la Cima, si godranno la Cuccagna, e da lassù guarderanno la piazza del paese come autentici Re del Maggio. Poi i ragazzi scendono con velocità, tornano a terra, vengono abbracciati. Trionfo intenso e breve. Stanchezza profonda e gioiosa. La gente del paese sciama verso le bancarelle, le giostre dei Luna-Park di campagna, gli slarghi dove si canta e si balla. L’albero, il Maggio, ritrova pace e solitudine. Gli uomini che lo hanno costruito lo guardano un’ultima volta. Vanno a casa. Riappariranno sul corso del paese un’ora più tardi. Per passeggiare orgogliosi. Vestiti a festa.